Max Roach
(1924 - 2007)




album in pagina

- The Loadstar
-
Drums Unlimited
-
Birth And Rebirth
(with Anthony Braxton)



collabora in:

- Birth Of The Cool
  (Miles Davis)

- All Star Sextet
- Charlie Parker
- 1947/1948

  (Charlie Parker)



Che la storia del jazz sia anche, in fin dei conti, la storia della batteria, è una di quelle piccole, grandi verità che possono suonare un po' piacione,  ma che sono anche in grado di offrire delle chiavi di lettura stimolanti. Come si è arrivati da Jo Jones a Hamid Drake, da Baby Dodds a Jim Blak, com'è che questo stumento, pratico compendio dei vari elementi percussivi delle marching bands, ha segnato le evoluzioni del linguaggio afroamericano, dallo swing più rigido alla poliritmia di un Tony Williams, dagli echi africani di Art Blakey alla libertà di un Sunny Murray?

Tra i tanti batteristi che hanno diritto a un posto di primissimo piano nelle vicende del jazz moderno, Max Roach è probabilmente l'artista che più di ogni altro ha attraversato con lucidità e al tempo stesso spontaneità le tante contraddizioni e le continue potenzialità che la musica gli presentava: fondamentale innivatore della grammatica stessa dello strumento negli anni '40, durante la rivoluzione be-bop, personaggio di grande peso nell'impegno politico e nei primissimi tentativi di indipendenza discografica, musicista in grado di dialogare con la medesima intensità con Duke Ellington e con Anthony Braxton, con Miles Davis e con Cecil Taylor, peculiare "architetto del ritmo" (come è stato felicemente definito), ripercorrerne l'intensissima carriera è un vero e proprio tuffo nel flusso del grande jazz.

Nato a Newland, nel North Carolina, nel gennaio 1924 (anche se lui sosteneva che i distratti uffici anagrafe degli Stati del Sud gli avessero arbitrariamente aggiunto un anno), ma trasferitosi giovanissimo a Brooklyn con la famiglia, Maxwell Lemuel Roach non deve aspettare poi molto per iniziare la prestigiosa ghirlanda di collaborazioni che caraterizzerà la sua carriera: poco più che adolescente sostituisce Sonny Greer nell'Orchestra di Duke Ellington in un breve ingaggio al Paramount Theatre e di lì a poco incomincia a bazzicare quella Cinquantaduesima Strada che sarà la culla del jazz moderno. Sulla scia della concezione introdotta da Kenny Clarke, Roach contribuirà così a rinnovare, nell'ambito della bruciante stagione del be-bop, il ruolo stesso della batteria, fluidificando il concetto di swing con la scansione dei quarti sul piatto e svincolando lo strumento dalla sua mera funzione metronomica per farne progressivamente un elemento di straordinaria varietà metrica e ritmica, oltre che melodico-timbrica.

Sono di quegli anni le fondamentali collaborazioni con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Coleman Hawkins, Dexter Gordon, J.J. Johnson, Bud Powell, Thelonius Monk, nonchè quella con il giovanissimo Miles Davis che, con la lungimiranza che lo ha sempre contraddistinto, sceglie Roach per le prime sedute del fondamentale
Birth Of The Cool.

Scorrere, anche rapidamente, la lista delle incisioni di Roach nella prima metà degli anni Cinquanta -lo si può fare comodamente sul web-  dà un'idea abbastanza realistica dell'incredibile vivacità di scambi musicali che la New York del tempo offriva: tra le esperienze più significative scegliamo certamente quella intrapresa nel 1952 assieme al contrabassista Charles Mingus, con cui Roach fonda la Debut Records, primo tentativo di etichetta gestita direttamente dai musicisti e in grado di svincolarsi dalle condizioni e dalle strategie delle major dell'epoca. Nonostante le difficoltà e la breve durata dell'avventura, il catalogo della Debut contiene una notevole serie di "gioielli", dallo storico concerto alla Massey Hall di Toronto che raccolse una delle più esplosive line-up di sempre, Parker-Gillespie-Powell-Mingus-Roach, ai primi dischi di Thad Jones o Paul Bley, passando per una serie di jazz Workshops che mise a confronto personalità differenti e oggi quasi dimenticate come John La Porta o Oscar Pettiford.

Nel 1954, di ritorno da un periodo in California con la Lighthouse Allstars di Howard Rumsey, Roach fonda un quintetto con il prodigioso trombettista Clifford Brown, formazione che nei suoi soli due anni di vita ha lasciato un segno inconfondibile nella nascente scena hard-bop. Con loro si alternarono a sax tenore Sonny Stitt, Teddy Edwards, ma sopratutto Harold Land e Sonny Rollins, mentre la sezione ritmica era completata  da Richie Powell (fratello di Bud) al piano e George Morrow al contrabasso. Tra la batteria di Roach - di cui incomincia qui a emergere il sapiente gusto "compositivo" del gesto strumentale- e il superlativo linguaggio improvvisativo di Brown si crea subito un'alchimia che si può gustare appieno ad esempio nello scintillante disco della Emarcy
Clifford Brown & Max Roach, dove troviamo temi che rimarranno nel songbook del jazz moderno come Daahoud o Joy Spring.

L'avventura di questa formazione si chiude tragicamente nel giugno del 1956, quando l'automobile in cui si trovano Brown e Powell precipita da una massicciata sulla Pennsylvania Turnpike, scrivendo in anticipo il nome del trombettista nella storia.

Solo pochi giorni prima Roach aveva partecipato alla seduta di registrazione di un altro di quei capolavori che all'epoca erano all'ordine del giorno,
Saxophone Colossus di Sonny Rollins, musicsta tra i più "empatici" e di più duraturo sodalizio nella carrier del batterista, che ritroveremo non a caso nel nuovo quintetto di Roach, dapprima con Kenny Dorham e poi con Booker Little alla tromba. Appiccicare la musica di Max Roach di questi anni la comoda etichetta hard-bop è certamente limitativo: i dischi del quintetto esplorano architetture sempre diverse, come nel caso del celebre Jazz In 3/4 Time del 1957, disco nel quale Roach e compagni affrontano un repertorio esclusivamente composto di temi in 3/4, cosa al tempo per nulla usuale.

Sul finire degli anni Cinquanta assistiamo ad una progressiva consapevolezza di Roach come leader e come strumentista: il desiderio di dare maggiore libertà ai propri gruppi lo porta a fare a meno del pianoforte, caratteristica che ritroveremo anche nei suoi quartetti degli anni successivi, così come l'attenzione si sposta verso progetti di maggiore peso espressivo e di sempre crescente impegno politico e sociale.

Il 1960 diventa così un anno simbolo per la discografia di Roach, che incide tra agosto e settembre, ancora per un'etichetta cult e indipendente, ma di breve durata come la Candid, uno dei suoi lavori più intensi ed indimenticabili,
We Insist! Freedon Now Suite, il cui titolo richiama esplicitamente un altro capolavoro cui Roach aveva preso parte un paio di anni prima, la Freedom Suite di Rollins. Il disco è un affresco di straordinaria forza espressiva, composto su testi del poeta e cantante nero Oscar Brown Jr., caratterizzato dalla voce di Abbey Lincoln (che di Roach sarà musa e moglie per alcuni anni) e dalla presenza del "vechio" sax tenore Coleman Hawkins, oltre che di Booker Little e del trombome di Julian Priester. Un'opera di grande denuncia civile e artistica, che urla dolente e rabbiosa sopra un cangiante tappeto ritmico, grazie a temi come Driva Man o Tears For Johannesburgh, che difficilmente di possono scordare.

L'anno successivo Roach è nuovamente al fianco della Lincoln, nonchè di Eric Dolphy e in uno degli ultimi, strazianti capolavori di Booker Little,
Out Front; il trombettista morirà dopo pochi mesi, solo ventitrenne, di uremia, non prima però di avere contribuito a quello che possiamo considerare un po' il seguito di We Insist! Freedom Now Suite, lo splendido Percussion Bitter Sweet nel quale spiccano i sassofoni di Dolphy e di Clifford Jordan.

La poetica di Roach è nella sua piena maturità e mostra un movimento di continua apertura, di urgenza di accogliere nel proprio linguaggio, con una curiosità lucida e sapientemente spazializzata, le espressioni più diverse: sempre per la Impulse incide ad esempio nel febbraio del 1962
It's Time, disco caratterizzato -nel bene e nel male- dalla presenza di un coro di sedici elementi. Del 1962 è anche un aktro disco meraviglioso e estemporaneo come Money Jungle, dove Roach è un vertice di un triangolo equilatero delle meraviglie completato da Duke Ellington al pianoforte e da Charòes Mingus al contrabasso; così come la travolgente cavalcara di Speak, Brother, Speak, che lo vede nuovamente alla guida di un quartetto con pianoforte, quello di Mal Waldron.

Un altro disco da segnalare in questa prima metà degli anni Sessanta nella quale le registrazioni si diradarono molto (lo scomodo impegno politico non è certo estraneo a questa diminuzione di lavoro) è un altro lavoro in trio, inciso per l'Atlantic,
The Max Roach Trio Featuring The Legendary Hasaan, in cui compare appunto (per la prima e ultima volta) il misconosciuto pianista Hasaan Ibn Ali, il cui stile obliquo richiama quello di Thelonius Monk o di un altro grande dimenticato con cui Roach collaborò, Herbie Nichols. Il successivo, robusto, Drum Untitled, contiene anche tre brani per sola batteria, formula nella quale Roach è stato un vero maesro, a partire dal 1953, anno della prima versione della classica Drum Conversation.

Gli anni Settanta e Ottanta, aperti da un altro progetto con ampio uso di voci, Lift Every Voice And Sing, si possono fondamentalmente dividere in tre aree principali di attività: l'ensemble i sole percussioni M'Boom, il quartetto senza pianoforte e i grandu duetti.

L'esperienza M'Boom -nelle cui fila hanno militato, tra i tanti, batteristi e percussionisti di livello altissimo, da Joe Chambers a Ray Mantilla, da Warren Smith al compianto Freddie Waits- non può essere liquidata come un progetto solamente spettacolare o virtuosistico: la varietà degli strumenti utilizzati e la sensibilità dell'architettura dei brani lo rendono invece una tappa interessantissima del percorso di Roach, nel quale la concezione spaziale e melodica del suo drumming trova una più vasta realizzazione.

Già sperimentato dalla fine degli anni Cinquanta, il quartetto senza pianoforte diventa poi il combo base dell'ultima fase della carriera del batterista: in questa formazione, che ha lasciato su disco e dal vivo pagine solide e efficaci, anche se non imprescindibili, si alternano negli anni Billy Harper e Odean Pope al sax tenore, il trombettista Cecil Bridgewater e contrabassisti come Reggie Workman e Tyrone Brown, cui si aggiungerà talvolta negli anni Ottanta un quartetto d'archi nel quale compare la figlia di Roach, Maxine, alla viola.

E' però forse nei duetti degli ultimi decenni che Max Roach ha trovato gli esiti più interessanti a quella sua continua urgenza di esplorazione degli spazi sonori: in primis quelli con Anthony Braxton, immortatalati da due imperdibili dischi per la Black Saint e la Hatology, costruiti si un continuo crearsi e rompersi di equilibri sonori; ma anche quelli con Cecil Taylor, che proprio in Italia, a Bologna, Ravenna e Milano, hanno avuto le rare repliche dopo lo storico concerto alla Columbia University. E ancora i dialoghi con Archie Sheep, Dollar Brand, Mal Waldrom, Dozzy Gillespie, a testimonianza di una sensibilità musicale così densa da richiedere quasi un'intimità espressiva. Segnati dalla malattia, gli ultimi anni di Max Roach -che comunque è stato tra i più longevi eroi della rivoluzione be-bop- lo hanno visto progressivamente ritirarsi dall'attività, per spegnersi poi nell'agosto del 2007.

Nell'arte di Max Roach, che come altri illustri colleghi ha sempre preferito non definire "jazz" ma semplicemente "musica" quella che creava, si può leggere un filo rosso di costruzione di un linguaggio in grado di essere al tempo stesso esplorativo, ma anche riflessivo sulla realtà e sull'umanità cui si rivolge.

Enrico Bettinello da Blou-Up n° 125 Ottobre 2008



- The Loadstar
(1977) Homo Records hdp 9-10i - vinile

1. The Matyr (part one) - 2. The Matyr (part two) - 3. Six Bits Blues (part one) - 4. Six Bits Blues (part two)

Musicians:
Max Roach, Cecil Bridgewater, Billy Harper, Reggie Workman

Produced by Aldo Sinesio
Recorded at Mama Dog Studio, Rome on July 27, 1977
Enginering by Raimondo Caruana
Cover art by Angelo Canevar

- Drums Unlimited
(1966) Atlantic sd 1467- vinile

1. The Drums Also Walts (M. Roach) 3.30 - 2. Nommo (J. Merritt) 12.45 - 3. Drums Unlimited (M. Roach) 4.25 - 4. St. Louis Blues (W.C. Handy) 5.08 - 5. For Big Sid (M. Roach) 3.01 - 6. In The Red (M. Roach) 12.25

Musicians:
Max Roach, James Spaulding, Freddie Hubbard, Ronnie Mathews, Jymie Merritt, Roland Alexander

Enginering by Tom Dowd, Phil Iehle, and Robert Wright
Cover photo by Ray Ross

Torna sul mercato italiano, dopo qualche anno di assenza, questo ottimo Drums Unlimited, un album che, almeno per un motivo, costituisce un documento altamente rappresentativo dell'arte di Maz Roach: quello della esplorazione delle possibilità espressive nell'ambito dell'assolo di batteria. Infatti, qui ritroviamo ben tre brani in assolo che continuano e approfondiscono il discorso timidamente aperto da Roach, nel 1953, con Drums Conversation, pubblicato a suo tempo su Debut LP 103 (ora irreperibile), e che sarebbe culminato con il recentissimo Solos, un album interamente dedicato ai soli di batteria, e pubblicato dalla giapponese Baystate.
Naturalmente, oggi, di assoli di batteria, ne sono stati incisi parecchi (Milford Graves, Abdrew Cyrille, Steve McCall, ecc.), ma all'epoca di queste incisioni, non c'era nessuno in grado di farlo (o, almeno, nessuno ci aveva provato). Comunque, a nostro parere, Roach è ancora oggi l'indiscusso dominatore di questa specialità, in cui rivela una tecnica perfettamente messa a punto e coordinata; partendo dall'esplorazione del tema, prosegue con una stimolante serie di variazioni improvvisate, che l'amico Gianni Gualberto usa definire "a respirazione", un'espressione che fotografa abilmente l'azione e la concezione del batterista.
Non fosse che per questo motivo, l'Lp merita l'acquisto; in aggiunta agli assoli, il disco presenta comunque altri brani eseguiti in quintetto o in sestetto che, pur se calati in quella posizione stilistica abbastanza ambigua che è l'hard bop, rivelano una certa identità roachiana.
Le cose migliori, oltre che da Roach, vengono da Freddie Hubbard, che allora suonava ancora jazz nel pieno senso del termine, e poi da quel James Spaulding che al fianco di Roach ha fatto sentire le sue cose più belle.
Mario Luzzi da Musica Jazz n° 4 aprile 1979

- Birth And Rebirth
with
Anthony Braxton
(1978) Black Saint bsr 0024 - vinile

1. Birth 9.40 - 2. Magic And Music 6.36 - 3. Tropical Forest 5.05 - 4. Dance Griot 5.06 - 5. Spirit Possession 6.44 - 6. Soft Shoe 2.57 - 7. Rebirth 7.16

Musicians:
Max Roach, Anthony Braxton

Produced by Giacomo Pellicciotti
Recorded at Ricordi Studios, Milan on September 1978
Enginnering by Carlo Mertenet
Cover photo by Giuseppe Pino

Se avete in mente il recente album di Max Roach con Archie Shepp e pensate che questo possa in qualche modo assomigliarli, siete fuori strada. Quanto quel disco era stupido, inconcludente, e mortalmente noioso, tanto questo è intelligente, ricco di idee, fresco e stimolante. Forse perchè Braxton è più intelligente di Shepp? Perchè no? Credo che le cose stiano proprio in questi termini. Eppure, sulla carta, la riuscita di questo nuovo accoppiamento poteva sembrare molto più problematica di quello con Shepp, non foss'altro perchè Braxton, avendo vent'anni meno di Roach, appartiene ad un'altra generazione di jazzmen ed ha alle spalle esperienze assai diverse dalle sue. Ma i due si sono riusciti a trovare un terreno d'intesa nella comune cultura musicale afro-amoericana, di cui hanno cercato di mettere in evidenza i valori essenziali, mettendo invece in ombra le particolari connotazioni che le "ere" jazzistiche a cui ciascuno di loro appartiene hanno attribuito all'uno e all'altro (l'era del bop per Roach e quella della "musica creativa" per Braxton). Hanno badato all'essenziale, insomma. Braxton si è un poco moderato, ha cercato di essere meno intellettualistico e meno azzardoso del solito, mentre Roach lo ha seguito nota per nota, accento per accento, inflessione per inflessione, pensiero per pensiero, con l'intelligenza e la straordinaria padronanza dello strumento che gli sono riconosciuti da sempre.
A chi era presente all'ultimo Festival di Alassio, che seguì di un giorno la seduta di incisione in cui è stato registrato questo disco, vorrei dire anche che l'intesa dei due, in studio, è stata più felice di quanto non fu quella sera, dinnanzi al pubblico di Alassio. Forse perchè in studio i due hanno potuto concentrarsi meglio, e magari ripetere ciò che non andava.
In conclusione: un disco eccellente, che sarà accolto con entusiasmo da cultori del jazz d'avanguardia.
Arrigo Polillo da Musica Jazz n° 2 febbraio 1979