Peter Green



album in pagina:

- The End Of The Game



collabora in:

- Rare Tracks vol.2
 
(Blues Breakers)

- London Live '68
 
(Fleetwood Mac)

- Long Walk Home
- Up

  (Peter Gabriel)


- A Hard Road
- Looking Back

  (John Mayall)



Tra i chitarristi più influenti e rispettati della comunità rock, Peter Green nasce musicalmente come bassista quando, a vent'anni, entra per breve tempo nei Peter B's Looners di Peter Banders, dove incontra Mick Fleetwood. Imbraccia la chitarra solo tre mesi più tardi, quando si unisce ai Bluesbrakers di John Mayall per sostituire Eric Clapton. Con i Bluesbreakers registra A Hard Road nel 1966, non facendo rimpiangere l'assenza di Clapton. Nel 1967, assieme a Fleetwood e McVie (bassista dei Bluesbreakers), dà l'avvio all'avventura Fleetwood Mac, guidandola sino al 1970.

Il suo abbandono, proprio quando grazie a lui la band cominciava a guadagnare i primi successi, è il preludio a un lungo periodo di instabilità e sofferenza, psichica e fisica, dovuto dapprima all'abuso di droghe e poi al disastroso tentativo di uscirne a colpi di elettroshock e pesanti dosi di psicofarmaci. Un calvario che lo vede vicino al suicidio e che passa attraverso la prigione e il manicomio.

L'abbandono dei Fleetwood Mac coincide con la pubblicazione del suo primo lavoro solista, l'inquieto e discontinuo
The End Of The Game, cui seguono otto anni di silenzio. Il rientro discografico avviene In The Skyes, che finalmente restituisce al pubblico il chitarrista dal fluido fraseggio e il compositore degli esordi Fleetwood Mac. Nel 1981 partecipa a un brano di The Visitors, debutto solista dell'antico compagno Mick Fleetwood. E' questa la seconda fase della carriera di Green che pubblica con continuità, ma qualità alterna, sino al 1987, passando da album dignitosi, come Little Dreamer, ad altri di routine, come Kolors e White Sky. Anche questa fase si chiude presto con A Case For The Blues, a nome Katmandu, nuovo effimero progetto con Vincent Crane. Green, di nuovo perso tra i suoi personali demoni, sparisce dalle scene sino al maggio 1996, quando a sorpresa partecipa alla terza edizione dell'Alexis Korner Memorial nella cittadina inglese di Buxton. In quella occasione è leader dei Peter Green Splinter Group, con Nigel Watson (chitarra), Neil Murray (basso) e Cozy Powell (batteria). Con questa formazione inaugura la terza fase della sua tormentata carriera. Dopo alcuni assestamenti, il gruppo prende una forma definitiva e inaugura una discreta serie di album, Peter Green Splinter Group, Time Traders, pur con qualche passo falso come The Robert Johnson Song Book, e una nutrita serie di concerti e tour in USA, Europa e Giappone. Alcune di queste date vedono Green accanto ad alcuni dei suoi vecchi idoli e mentori, come B.B. King e John Mayall. Nel frattempo il musicista trova anche il tempo per pubblicare tre lavori solisti, Blues For Dhyana, The Clown, e il più riuscito Reaching The Cold 100. Il 12 genniao 1998, quando i Fleetwood Mac entrano nella Rock and Roll Hall of Fame, sul palco c'è anche lui, per una versione della sua Black Woman eseguita assieme a Carlos Santana, che la portò al successo.

Un nuovo periodo difficile pare tuttavia annunciarsi: voci ufficiali danno infatti Green fuori dallo Splinter Group nel 2004. Attualmente il nome che campeggia sul cartellone dei suoi concerti è Peter Green And Friends.

da
Enciclopedia del Rock ed. Arcana


- The End Of The Game
(1970) Wea Records 7599 26750 - vinile

1. Bottoms Up
9.00 - 2. Timeless Time 2.30 - 3. Descending Scale 8.10 - 4. Burnt Foot 5.12 - 5. Hidden Depth 10.06 - 6. The End Of The Game 5.10

Musicians:
Peter Green, Zoot Money, Goffrey MacLean, Alex Omochowski, Nick Buck


Produced by Peter Green
Engineering by Maertin Bach
Cover photo by Keystone

"... I feel it is time for a change". Con queste parole Peter "Green" Greenbaum poneva termine alla sua esperienza come chitarrista dei Fleetwood Mac nell'aprile del 1970, per incamminarsi su percorsi differenti, lontani dalla fama procuratagli dal blues elettrico di quella band.
Ufficialmente colto da crisi mistico-religiosa, in realtà parzialmente inebetito dall'Lsd, Green abbandonò lo stile di vita precedente per dedicarsi interamente a una sorta di estemporaneo ascetismo, che lo porterà a disfarsi della fortuna accumulata e a vagare di lavoro in lavoro, ma che sublimerà in una delle opere più grandiose mai pubblicate. Inciso in una sola notte,
The End Of The Game rimane una delle meteore più accecanti che abbiano mai solcato il cosmo della musica rock.
Green si traveste da sciamano e cerimonia una messa ancestrale, dove oscurità e magia tribale, si fondono al viaggio lisergico. E allora in
Bottoms Up, la chitarra si distende eterna e schizofrenica su un fitto tappeto ritmico, per poi esplodere in preda a un mistico delirio. Estremamente dimessa e intima, Timeless Time evoca la quiete estatica del David Crosby più dilatato e sognante e, insieme al tenero fraseggio chitarristico di Hidden Depth, richiama alla mente le atmosfere languide e sognatrici che accompagnarono l'utopia hippie, e la grande stagione creativa che sta mestamente volgendo al termine.
Ma basta ascoltare l'epico duello con il piano di Zoot Money in
Descending Scale, per capire che l'anima di Green è sfregiata da contrasti che di angelico hanno ben poco. Quiete e tempesta, estasi pianistica e chitarra rabbiosa, come sfondo la foresta  misteriosa e arcaica, infinita. L'ossessiva percussività da danza tribale, trova sfogo in Burnt Foot: la batteria domina, il cerimoniale si avvicina al culmine, la chitarra attraversa soltanto la traccia, come una arcana presenza incombe silenziosa.
Il rito raggiunge l'apice, Green dipinge schizzi di primordiale follia, estrae tutta la potenza evocativa dallo strumento, per adempiere al ruolo di sciamano rock come solamente il Morrison più invasato prima di lui; la conclusiva
The End Of The Game è lo sfogo terminale, la furia cieca prende il sopravvento, delirante ritorno a una forma di primitiva coscienza.
Il misterioso, l'inesplorato, l'infinita e dolorosa ricerca delle origini accompagnano Green nel suo concerto di dissonanze e distorsioni per wah-wah. Tutte le tracce si basano sull'improvvisazione, forti di una notevole perizia tecnica dei collaboratori, creando il fortunato connubio di psichedelia e jazz-rock che permea il disco e che lo rende una delle pietre miliari del rock strumentale dell'epoca. Viscerale ed intenso, schizofrenico nei suoi continui viaggi tra l'estatico e il minaccioso,
The End Of The Game è l'urlo nel silenzio di una generazione che osserva impotente il lento dissiparsi di un sogno: la fine dei giochi.
Enrico Biagini da www.ondarock.it