Jethro Tull



album in pagina:

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Stand Up
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Aqualung
- Thick As A Brick



Il flauto giace abbandonato su una sedia all'interno di un chiassoso pub scozzese; appoggiati al bancone, le facce incupite, i modi pesanti, minatori, tessitori di lane, stallieri e contadini tracannano le loro pinte di scotch blended, di birra con il rhum: affogata nelle parole scomposte una radio in un angolo gracchia un brano di Roland Kirk...

Improvvisamente il nostro flauto trova il padrone e se ne esce all'aria aperta, al di là della barriera di fumo, tra un vento pieno di mille cose, odori, profumi e suoni; incontriamo così il nostro pifferaio di Hamelin, il ragazzo Ian Anderson, che per un gioco di natura sembra non avere età dietro la sua barba rossiccia, un'anima originale e introversa, sete culturale e desiderio espressivo, un solo mezzo: la musica.

Ora all'improvviso il pifferaio ha conquistato i suoi primi tre topi, un appassionato cultore di chitarra blues, Mick Abrahams, un bassista di jazz, Glenn Cormick, un oscuro batterista Clive Bunker.

Nasce così l'ambizione dei Jethro Tull, un'ambizione covata sui banchi di scuola dal bambino Ian Anderson, il compagno di banco si chiamava Jeffrey - un vero amico non ha cognome - il primo della classe era Barriemore Barlow, un'ambizione sofferta nelle umide sale di Edimburgo alternando al jazz i violenti reel degli Highlanders, dove il cappotto di ruvido tweed era una necessità termic: il freddo lo sapeva sconfiggere solo con quel magico flauto.

Lo strumento argenteo, moderna cornamusa per questi nuovi scozzesi, è l'immagine ricorrente nel nostro racconto, la figura costante di tutte le visioni; quante volte udiremo ancora lo speaker radiofonico anunciare un brano del flautista Jethro Tull, quante volte udendo quel suono pronunceremo quel nome: ormai l'immagine simbolica supera la realtà, la fantasia e il ricordo ci piacciono troppo da essere così dimenticate e il flauto continuerà a suonare.

Ma perchè questo suono trascicato e violento, febbricitante e sguizzante possa giungere alle orecchie di tutti dobbiamo recitare un ultimo piccolo capitolo.

Avete mai notato una delle foto più recenti del gruppo? Sembra una foto di famiglia, stessi occhi spiritati, divisa uguale in barba e baffi, cinque severe matte facce gaeliche. Io di queste facce ne conosco una sesta e benedetto fu il giorno in cui la conobbe anche il nostro Anderson: si chiama Terry Ellis, piccolo wizard delle etichette e delle sale di registrazione, lasciapassare per il successo dei Jethro Tull.

Così il brano di Kirk che avevamo ascoltato all'inizio nel fumoso pub scozzese torna a noi; chiude il primo sogno dei Jethro ull a trentatrè giri. E' come quando in campagna odi lontano un tuono e il vento ti dice che tra poco il temporale verrà:
This Was, opera prima rozza e confusa ma ammantata del fascino delle cose incompiute, abbozza tutto un futuro radioso. Il suono è già in equilibrio tra il barocco ed il jazz, il rock osa e ferisce, la campagna con le sue tradizioni musicali e il suo umorismo vanaglorioso arriva ovunque. Dopo aver ascoltato i dieci titoli dell'album sappiamo forse già tutto: conosciamo già l'amico Jeffrey, abbiamo indovinato che Abrahams con la sua chitarra non fa per i Jethro Tull e già lo vediamo sparire con il suo group, sappiamo che Roland Kirk non è affatto casuale, indovineremo subito lo scorrere fluido e aggressivo, queste melodie veloci e senza grinze, i polmoni che soffiano nel flauto come mantici.

This Was lancia in Gran Bretagna un gruppo diverso da tutti gli altri: un complesso che non vanta presenze di session man nè che fornisce session man, un nucleo completamente isolato dal resto della musica progressiva britannica. Questa è una constatazione molto importante per comprendere a fondo l'indipendenza non solo personale ma sopratutto stilistica del gruppo: i Jethro Tull non fanno parte "dell'ambiente", non sono nè amici di Harrison, nè di Bruce, non hanno mai suonato con Korner o con Bond, prima di questo album nessuno sapeva nulla di loro: ma l'aspetto più importante di questi provinciali scozzesi è che per il loro rock non è nè tradizione nè musica d'ambiente, al rock i Jethro Tull arrivano come ad una forma di espressione moderna provenienti dal jazz e dalla musica folkloristica inglese.

Forse è per questo che Mick Abrahams, invece maggiormente integrato in un certo tipo di discorso, trova la via dell'esilio. Nasce allora da certe brume delle campagne umide, dai glens popolati di pacifiche vacche il volto contadino, pacioso e tondo, le guance rubizze e i modi impacciati ma, per carità, il nome raffinato da antiche leggende suonanti di scontri tra cavalli e uomini bardati a morte: Martin Lancellot Barre. E il pifferaio di Hamelin trova il suo fedele scudiero; un grande acquisto con una chitarra semplice ma dotata di un gusto strabigliante, la sua stessa versatilità piegata ora verso la Spagna mitica e religiosa, ora verso la raccolta che Marijorie Kennedy Fraser fece delle antiche ballate scozzesi, ora rock indurito dal volume e dal distorsore, enigma tra gotico e barocco o molto meglio struggente di semplice sentimento. E dopo ciò:
Stand Up ! Alzati in piedi antico folk inglese lasciato marcire nelle schifose cantine dell'ignoranza e dell'èlite, capostipite di intere generazioni sonore e con te si alzi tutta l'antica musica dell'Europa contimentale, chansons e ballate, danze e inni di guerra, alzatevi in piedi limpide toccate bacchiane, seicentisti impomatati, jazzisti arrabbiati e soli, rockers confusi e disordinati: quattro folletti vestiti da straccioni hanno percorso le vostre serre, i vostri boschi strappando foglie e boccioli.

Stand Up è un capolavoro come pochi: mossi dai sentimenti comuni di violenza, liricità e linearità musicale rock, folk, classico e jazz convivono armonicamente: i Jethro Tull, relativamente giovani e con quindi un'enorme personalità e una straripante carica accumulata non si appoggiano amloro come fanno tanti altri, ma li carpiscono, li violentano distorcendoli a loro volere. Stand Up è un pinnacolo a cui un'enorme stirpe di gruppi e artisti volgerà consciamente o inconsciamente lo sguardo: specialmente nei confronti del folk inglese il disco farà in pochi istanti ciò che in anni Fairport Convention, Strawbs e Pentagle non avevano mai compreso: l'isolazione e il purismo, quando si ha qualcosa da portare avanti, da dire, è di per sè già una rinuncia.

A questo punto l'immagine cambia: eravamo in mezzo a strade fumose, nei pubs, nelle foreste o nelle campagne nebbiose, ora entriamo in punta di piedi nei Morgan Studios di Londra, timorosi di tanto preoccupante lavoro che ci circonda; sentiremo un parlare tecnico e forbito in uno dei saloncini... sono i Jethro Tull che stanno discutendo del loro nuovo album, i Jethro Tull maestri dei nastri e dei missaggi, piccoli genii della sovraincisione. Qualcuno forse non li conoscerà sotto questo aspetto ma è così: i brani che prendono corpo ai piedi dei vecchi castelli, prendono il loro corpo tra i bottoncini, i mixer, le leve: il flauto non è mai solo, sono due, tre, le voci echeggiano come in miniera, la chitarra può stridere come una cornamusa, ma il ritmo non rimane mai soffocato, le ore passate schiacciando i tasti non annientano l'ispirazione.

L'Isola Skye, al nord dell'isola madre, risuona nella risacca che corrode le sue alte coste, il pulsare delle ali di grandi aironi, qualche rumore appartiene ancora alle leggende dei vichinghi che vi sbarcarono e degli uomini fieri col tartan che li ricacciarono alle barche... pulsa così il flauto ai piedi di questa terza, raffinata costruzione che si chiama
Benefitt. L'album dove l'epicità, l'estetismo esuberante e possente, le presenze strumentali prepotenti si colorano di pallido mescendosi in sentimenti più rarefatti, nella dolcezza del riposo, degli spazi che si aprono, dello scozzese vissuto fino ad ora sulle montagne crude e brulle e che ora, inseguendo una preda, improvvisamente giunge dal mare, all'orizzonte e guarda, guarda seduto mentre il fiato gli si fa più lungo... Da dietro a questo gioiellino che si chiama Benefitt, delicato di suoni e di sensazioni, appare, già clown di se stesso, un pianoforte elegantissimo, una virgola necessaria per molte atmosfere dei Jethro Tull, un piano di nome John Evans.

Narra Walter Scott, scrittore inglese vissuto a dieta di antica storia britannica, di un giovane detto Robin Hood; mi dicono oggi che forse non fu un eroe ma bandito, brutto e volgare invece che gentile ed elegante, cade forse un mio sogno infantile. E adesso non so se Anderson-Hood sia mostro od artista, genio o dittatore anche forse perchè utopisticamente non riesco a vedere questi sentimenti insieme: Ian Anderson costruisce e distrugge il gruppo, forse come fu la molla elastica capace di spingerlo verso la gloria sarà anche il perno rugginoso che farà spezzare tutto: può darsi, ma io ancora dieci secoli dopo penso a Robin Hood. Ed è pensando all'arciere di Re Riccardo che incontro
Aqualung; lo aspettavo questo vecchio, questo brutto vecchio che mi parla di Dio di "Mary con gli occhi storti". In lui ho incontrato quel me stesso che avevo lasciato lungo un marciapiede sperando che morisse e che ora rimpiango, nostalgia e tristezza per non poter tornare indietro, abbandono proustiano ai momenti passati.

Le voci del disco sono tante ma appartengono ad una soltanto, i sentimenti sono molti ma l'uomo uno solo, i titoli addirittura undici ma questa è la vera prima suite dei Jethro Tull, la più grande, piena di istanti e passioni, un meraviglioso viaggio sulle montagne russe della vita dove il mellotron è cielo, il flauto poesia, il piano pioggia, la voce è mia, di fuori e di dentro.

C'è in questo summit del gruppo, molto rock, molta ricerca d'atmosfera, molti ricordi di un mondo cantato in Scozia agli angoli delle strade, molta rabbia autenticamente trasformata in jazz, ma tutto è viscerale, sognato forse ancor prima di
Stand Up: il vero appello non è nella tecnica o agli stili ma al sentimento, alla natura umana, l'obiettivo raggiunto nel più felice modi.
Quando un gruppo incomincia a vivere nel passato è brutto segno per futuro, ma bisogna ogni tanto ben fermarsi a ricordare, sperando magari che qualcosa sia avanzato per il futuro. L'enciclopedico volume ci ricorda tutto;
Living In The Past ! Ubbidiano e ci ricordiamo di quanto scopriamo che il vecchio Jeffrey rispondeva all'altisonante cognome di Hammond e che sapeva suonare il basso con stile duro ed incisivo, quando abbiamo scorto dietro la batteria un certo Barriemore, certi quarantacinque che ci hanno melodiosamente cullato, violentemente squassato.

Il sogno di Anderson è realtà: i Jethro Tull di ora sono quelli che lui aveva sempre sognato, quella macchina sonora di sensazioni perfette, strumento di raffinatezze incomparabili, capace di trascinare grandi folle per grandi spettacoli. Ma forse Anderson incomincia a perdere: la Scozia è già un mito come il mostro di Lockness, la rabbia rimane su un marciapiede con il lercio Aqualung, non esistono più chiese da dissacrare, ormai si suona dunque il jazz con il rock con il classico e tutti amiamo l'antica Britannia.

Con i Jethro Tull dell'utopia giungono freddini allo stampaggio di
Thick As A Brick: la grande suite regala più fantasia alle storie e alle forme di copertina che al momento musicale. Il fascino rimane: con le numerose atmosfere che si muovono le une sulle altre, l'incedere ritmico dell'organo, lo spirito battagliero del flauto, l'umorismo nuovo, la concentrazione perfetta: ma è un castello, un castello gotico davanti al quale la fantasia si arrende.

Il pifferaio continua comunque a suonare per i suoi topi: adesso Barriemore, John, Martin e Jeffrey hanno una dote in più: l'umorismo. E' un umorismo parossistico ma dissacrante, stereotipati tipi inglesi in un palco pieno di coniglietti... permettiamo al pifferaio di sognare, non uccidiamo l'artista, speriamo che la musica diventi migliore e allora i coniglietti avranno un significato più dolce per tutti: sinceramente siamo ancora ai topi dietro al nostro flautista e speriamo per lui.

Ma l'ultima immagine è triste: stiamo dentro un grande teatro di velluto grigio, qualcuno lontano suona un sax, al centro delle poltrone un flauto giace riverso, il sangue alla bocca.

Marco Ferranti


- Stand Up
(1971) Crysalis chr 1042 - cd

1. A New Day Yestersay 4.00 - 2. Jeffrey Goes To Leicester Square 2.05 - 3. Bouree 3.40 - 4. Back To The Family 3.45 - 5. Look Into The Sun 4.15 - 6. Nothing Is Easy 4.25 - 7. Fat Man 2.50 - 8. We Used To Know 3.55 - 9. Reasons For Waiting 4.00 - 10. For Thousand Mothers 4.05

Musicians:
Ian Anderson, Clive Bunker, Gen Cormick, Martin Lancelot Barre

Produced by Ian Anderson and Terry Ellis
Recorded at Morgan Studios
Engineering by Andy Johns
Cover art by Jimmy Grashow

Dopo un primo 'lp che affonda le radici nel blues, Ian Anderson prova a definire un ibrido stilistico che attinge da folk, blues e jazz, che viene subito inserito nel progressive per la presenza di una disinvolta rivisatione del patrimonio classico. Bourèe delizia e dannazione di tutta la carriera dei Jethro Tull, storico ingresso del flauto nelle classifiche rock (primo posto nelle classifiche inglesi) e prima solida pietra di una lunga carriera.
Comunque lo si voglia giudicare, è un disco di ballate folk pop e blues, belle ma ingenue, come confesserà Anderson anni dopo: A New Day Yesterday, Back To The Family Nothing Is Easy, We Used To Know, Reason For Waiting. Un moderno folk revival che si sistema senza sforzo tra Fairport Convetion, Family e Straws.
Cesare Rizzi da Progressive & Underground, ed. Giunti

- Aqualung
(1971) Crysalis 7243 4 9 5401 - cd

1. Aqualung - 2. Crosseyed Mary - 3. Cheap Day Return - 4. Mother Goose - 5. Wond'ring Aloud - 6. Up To Me - 7. My God - 8. Hymn 43 - 9. Slipstream - 10. Locomotive Breath - 11. Wind Up - 12. Lick Your Fingers Clean - 13. Wind Up (quad version) - 14. Erupts From Ian Anderson Interviw - 15. Song For Jeffrey - 16. Fat Man - 17. Bourèe

Musicians:
Ian Anderson, Clive Bunker, Martin Barre, John Evan, Jeffrey Hammond

Produced by Ian Anderson and Terry Ellis
Cover by Burton Silverman

Un ulteriore avanzamento stilistico, è un disco di folk in equilibrio tra brani acustici ed elettrici, al quale critica e pubblico hanno attribuito un significato concept che in realtà non era nelle intenzioni dell'autore (Anderson ha sempre parlato di canzoni "vagamente e casualmente correlate"). E' però il disco più famoso dei Jethro Tull, non solo in patria (sarà al primo posto in Italia).
Le metafore sulla religione organizzata vista attraverso gli occhi di un vagabondo sono sufficienti perchè la critica lo inserisca nel genere progressivo. Già si nota tuttavia l'astuto mestiere di Anderson, abilissimo a trasformare a suo favore brani di varia origine, folk e rock, musica elettrica (Locomotive Breath), acustica con archi (Wondring Aloud), classica e hard, trattando spesso il folk alla maniera di Roy Harper (Up To Me).
Cesare Rizzi da Progressive & Underground, ed. Giunti

- Thick As A Brick
(1972) Crysalis cdp 32 1003- cd

1. Thick As A Brick

Musicians:
Ian Anderson, Clive Bunker, Martin Barre, John Evan, Jeffrey Hammond

Produced by Ian Anderson and Terry Ellis

Se il disco precedente era un falso concept, questo è una parodia di concept, realizzato con maliziosa ironia passata del tutto inosservata. Ne viene fuori un simpatico raggiro dedicato agli onnivori del genere, surrogato di elementi di contorno (come la celebre copertina a giornale) e di una verosimile trama sociologica.
Il titolo ("ottuso come un mattone") dovrebbe aiutare perlomeno il pubblico di lingua inglese ma in realtà ci son cascati tutti, tributando al disco un successo inatteso (al primo posto anche negli USA).
Dal punto di vista strettamente musicale sono due facciate di musica senza canzoni, con un riff per flauto che affiora più volte lungo il disco e poco più.
Cesare Rizzi da Progressive & Underground, ed. Giunti